

È raro incontrare organizzazioni culturali senza un sito, una pagina Facebook, un canale YouTube. Solo qualcuna non ha un account su Instagram o una lista di indirizzi email raccolti in passato tra gli spettatori o i fruitori.
Viene dunque da chiedersi da dove derivi la sensazione, diffusa, che tutti gli sforzi non siano ricompensati dai risultati, o almeno che non siano così evidenti. «Abbiamo 5.000 follower, eppure non so, non capisco se ci serve o no questo sforzo di pubblicare vari post a settimana». È un commento diffuso nell’ambito delle consulenze che Digital Hangar sta svolgendo nelle organizzazioni piemontesi di varie dimensioni, da quelle più piccole fino a quelle più strutturate.
Molte organizzazioni hanno aperto canali più spinte dalla sensazione di «doverlo fare» che per una strategia conscia. La proliferazione digitale è stata vissuta più come necessità imposta che come forma di crescita effettiva del proprio pubblico. O meglio, la necessità era percepita dal contatto con i propri pubblici, che richiedevano e richiedono sempre più spesso non solo di essere informati attraverso forme digitali, ma anche di rimanere in relazione anche fuori dagli eventi, di essere ascoltati, di poter dire la loro.
Aldilà delle capacità delle singole organizzazioni di gestire più o meno tecnicamente bene i contenuti da distribuire sulle varie piattaforme è venuto il momento di cominciare a mettere in fila gli strumenti. In fila come?
Mettere in fila significa dare un ruolo ai diversi canali, anche differenziando le audience degli stessi canali, modellando i contenuti per essere «digeribili» a pubblici «già dentro», ma soprattutto a pubblici «ancora fuori». Il pubblico «ancora fuori» è quello che non «sopporta», per esempio, la versione integrale di uno spettacolo su YouTube, perché, nel momento in cui lo intercettiamo, tipicamente via social media, sta facendo altro e al massimo può guardare un video breve. Abbiamo tre secondi per suscitare un’emozione. Serve una «pillola» che vada a centrare esattamente il suo bisogno, la sua sensibilità, la sua curiosità. Ci sono contenuti che fanno questo molto bene, le stories, i video sponsorizzati rivolti a un pubblico cosiddetto «freddo» (cioè che non ci conosce, di cui non abbiamo dati certi, solo vaghe preferenze che Facebook e gli altri ci comunicano nel momento in cui decidiamo di investire in promozione).
Se riusciamo ad avere ulteriori 10 secondi di attenzione, possiamo portare il pubblico (ogni singola persona di quel pubblico) a fare un altro passo: per esempio l’iscrizione alla nostra newsletter, che quindi non sarà più solo popolata da chi ci conosce, ma anche da un segmento che deve ancora essere «sedotto». E come avviene questo?
Avviene se e quando modifichiamo la comunicazione via email (ma anche riflessa su di un blog) da «programma degli eventi» a magazine continuativo. Che faccia incollare le persone con i contenuti «intra» spettacolo. Che susciti la voglia di esserci per davvero, che sia uno spettacolo dal vivo o una forma innovativa digitale, ma totale, immersiva. È inutile e uno spreco di risorse cercare di portare audience di sconosciuti direttamente all’esperienza immersiva, magari qualche giorno prima con una campagna last minute.
Coloro che potranno e vorranno esserci saranno sicuramente i «caldi» (il nostro pubblico fedele, di cui abbiamo parlato nel post precedente), i «tiepidi» che avremo conquistato non a colpi di programma ma a colpi di anticipazioni e anteprime tese ad aumentare il loro desiderio di esserci. Operativamente: gli iscritti alla newsletter e alle nostre pagine social.
Il digitale non è mettere tutti i canali in parallelo come se fossero affissioni, ma disporli in un flusso in cui ogni persona venga accompagnata dai contenuti costantemente e progressivamente, a seconda di quanto è «dentro» alla nostra proposta di valore, di quanto è coinvolta. Serve equilibrare lo sforzo per «portare dentro», quello per «portare avanti» (verso la presenza), e quello per «portarsi dietro» coloro che sono già dentro.
Per questo il digitale non finisce mai, e deve continuare anche dopo l’ultima replica. Perché quello che conta non è il numero dei follower, ma l’attenzione del proprio pubblico. Chi non è stato presente a questa stagione, può essere un ottimo candidato alla prossima, ma solo se non buttiamo il patrimonio dei contatti che faticosamente abbiamo portato «dentro».
Allora sì che potremmo misurare, nel lungo periodo, quanto lo sforzo di gestione del digitale si ripercuota poi in biglietti, crowdfunding o qualsiasi altro obiettivo che avremo dato alla nostra strategia.
